1 maggio 2019

MEMORIE E LIBERE SUGGESTIONI SU “BATTAN L’OTTO”, FRA FERRIERA E MINIERE [Giampiero Bigazzi]




Ci sono alcune canzoni, nella tradizione orale, “raccolte” fra San Giovanni Valdarno e Cavriglia e tutte registrate nella prima metà degli anni Sessanta da Caterina Bueno: Il trenino che parte e va, forse Cade l’uliva (ninna nanna che ha anche radici pistoiesi e lucchesi) e Battan l’otto. Canti che la grande interprete del canto sociale toscano ha più volte cantato, inciso su dischi e presentato in concerto, e che poi hanno avuto molte altre versioni.
Battan l’otto è quella più conosciuta e a cui sono più affezionato. Fu riproposta per la prima volta da Caterina nel suo fondamentale La Veglia, album dei Dischi del Sole pubblicato nel 1968. (1)
Ha il procedere di una ninna-nanna, ma racconta di una terra di ferriera e di miniere di lignite. Popolata da gente che si fece anarchica, socialista e poi ancora comunista. Che lottò per i diritti dei lavoratori, venne duramente punita dai nazifascisti nella terribile estate del 1944, fece la Resistenza. E vinse.
Nei libri e pubblicazioni dove è riportata viene presentata come un “canto di galera” che probabilmente nasce dalle incarcerazioni in seguito ai grandi (e sanguinosi) scioperi delle acciaierie di Terni, nel 1907. Infatti il primo verso (“Battan l’otto, ma saranno le nove”) è dirompente, un incipit forte, che ricorda il rito della sveglia e delle visite delle celle da parte delle guardie. C’è un altro canto, questo chiaramente di carcere, raccolto nel grossetano sempre dalla Bueno e inserito nell’album La Toscana di Caterina che dice proprio “Battan le sette e mezzo a la mattina / Vien quattro sbirri a visitar le celle / Chi guarda l’inferriata e chi l’ascolto / Chi guarda il vaso e chi le catinelle”. (2)
Nel canto valdarnese, l’indecisione – diciamo così - fra il rintocco delle ore otto, quando forse sono le nove di mattina, è singolare. Soprattutto se quel suono di campana viene collegato al successivo verso che fa riferimento ai “figlioli che son digiuni ancora”. Il richiamo alla galera è possibile, ma mi piace pensare anche a un grido più generale: è comunque un genitore che ha a che fare con la fame, con la miseria, che forse ha perso il senso del tempo, di fronte a un nuovo giorno di patimenti (ma anche di voglia di riscatto).
La presenza delle ore (anche se solo all’inizio del canto) ricorda la narrazione per orario tipica della racconto popolare, tanto che in molte zone dell’Italia centrale (anche in Umbria) nelle “passioni” cantate soprattutto nella settimana pasquale, si declamano le ore collegandole ai momenti più importanti della Crocefissione.
Come si è detto l’origine del canto è stata sempre collegata (a dire la verità senza una prova storica precisa) ai duri scioperi delle acciaierie di Terni. Più di tre mesi di lotta, accompagnata anche dalla serrata e da una pesante repressione da parte delle forze di polizia del governo Giolitti. Il 1907 fu un anno di grandi scioperi indetti ovunque dalle organizzazioni sindacaliste rivoluzionarie: i vetrai, i tranvieri di Napoli, i contadini nel parmense e ad Argenta nel ferrarese in lotta per tre mesi, i lavoratori del gas a Milano, i ferrovieri, gli scioperi generali a Bari e a Bologna. Ci furono rivendicazioni fra gli impiegati dello stato e perfino nell’esercito e nella magistratura. Un anno terribile, costellato da feriti e morti. Sicuramente gli operai della Ferriera di San Giovanni Valdarno parteciparono e i legami sindacali con i metallurgici di Terni erano ben presenti e forte era la tradizione sindacalista, anarchica e socialista.
Caterina Bueno, nella prima parte degli anni Sessanta, capitò diverse volte da queste parti e registrò molte testimonianze. S’imbatté in Renato Porri, detto Icchionne (o, più correttamente, i’ Chionne), operaio della Ferriera, figura molto conosciuta a San Giovanni (3).
Diverse le storie sul suo conto: “eh! un bel tipo Icchionne… anarchico e comunista, fece il partigiano, ma quando partirono, nel febbraio del 1945, i Volontari della Libertà dal Valdarno, lui non poté arruolarsi perché era in prigione, avendo fatto fuori il Melani detto Gocciolina, repubblichino, spia dei tedeschi, camicia nera alquanto brutta, voltagabbana, prima anarchico finto e poi fattosi cattolico. E fascista fino all’ultimo. E quando i fascisti picchiarono Rolando Gragnoli, che poi sarebbe diventato il primo sindaco dopo la Liberazione, Icchionne si voleva vendicare subito. Come voleva salvare i tre martiri di Santa Lucia, quei tre giovani soldati italiani catturati dopo l’8 settembre dai nazifascisti e fucilati sulle colline che portano a Cavriglia. Quando fra le formazioni partigiane del Pratomagno si seppe della loro condanna a morte, lui voleva fare subito un’azione per liberarli”. (4)
L’ho conosciuto anch’io Renato Porri, detto i’ Chionne, alle cene organizzate dall’Anpi, dove si cantava e dove capitava di cantare anche Battan l’otto: “Eh… sì, c’era questa signorina, venuta da Firenze co’ i’ registratore… gli cantai qualche canzone che mi cantava la mi’ mamma, da piccino, pe’ addormentarmi” “Anche Battan l’otto per addormentarti?” “Eh, certo!”. E lui era una specie di leggenda. Era uno che, nella parte finale della sua vita, ricoverato all’ospedale, si fece portare sul marciapiede, dall’infermiera, in carrozzina, per salutare con il pugno chiuso un corteo di operai e di studenti che manifestavano per l’occupazione (inizio anni Settanta, credo). Me lo ricordo: un fremito attraversò il corteo… “oh! bada lì, c’è Icchionne a salutarci…". In molti si ricordano ancora quell’apparizione.
Il personaggio, citato ovunque quando si parla di Battan l’otto, era un pezzo importante della storia democratica di quello scorcio di Toscana fra la Ferriera di San Giovanni Valdarno e le miniere di lignite di Cavriglia e, avendolo un po’ conosciuto, mi fa sembrare ancora più particolare quella “ninna-nanna di rivolta” che cantò alla giovane ricercatrice fiorentina. Battan l’otto infatti non ha “riprese” pre-esistenti a quella registrazione della Bueno o trasformazioni successive. E’ quella. Con una struttura armonica semplice, in minore, comune a tanti altri brani della tradizione, ma con una linea melodica e un testo originali. E’ un componimento di evidente matrice popolare, in vernacolo toscano, si potrebbe dire: ci ho sempre ritrovato elementi espressivi tipici della parlata degli abitanti della valle che sta a sud di Firenze.
Le parole potrebbero apparire come il prodotto di varie evoluzioni, cioè i passaggi dai differenti richiami politici. Sembrerebbero frutto di adattamenti e tipiche alterazioni di un testo tramandato, come dimostrano anche le continue ripetizioni e, appunto, il passaggio dalla strofa sull’anarchia a quella sul socialismo e alle rosse bandiere del comunismo.
Ma non ne sono sicuro, perché il mettere insieme quelle tre grandi tradizioni delle lotte proletarie, fra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, fa parte delle radici politiche della mia terra. E’ la storia della gente della ferriera e delle miniere: prima anarchici convinti e socialisti delle origini, infine elettori e aderenti al PCI. (5)
Nel web, ogni tanto, appare un riferimento alla pubblicazione “La musica dell’altra Italia” (che non conosco) dove vengono indicati due autori, "G. Raffaelli e R. Cerretti". Ma non ci sono riscontri attendibili.
E io, allontanandomi ancora una volta dal rigore scientifico, mi sono sempre trovato a pensare che l’avesse “scritta” lui, Renato Porri, operaio, partigiano, detto i’ Chionne.

Giampiero Bigazzi
[articolo pubblicato n. 23 - aprile 2018 di Toscana Folk]


(1) Si viene a conoscenza di Battan l’otto proprio con il disco di Bueno, mentre - ad esempio - è assente ne I canti politici italiani 1793-1945 di Lamberto Mercuri e Carlo Tuzzi che fu pubblicato da Editori Riuniti nel 1962.
(2) E’ citata in Leoncarlo Settimelli – Laura Falavolti Canti anarchici (Samonà e Savelli, 1972), come rifacimento con il titolo “E a te Pietro Valpreda”, scritto in occasione dell’inizio del processo per la Strage di Piazza Fontana, avvenuto proprio nel 1972: “Batton le sette e mezza la mattina / vien quattro sbirri a visitar le celle / chi batte all’inferriate e chi alla porte / chi ascolta il grido delle sentinelle. / E a te Pietro Valpreda t’hanno rinchiuso / Che da due anni sei dentro innocente…”
(3) Bueno intervistò altri valdarnesi ex-minatori delle miniere di Castelnuovo dei Sabbioni (Cavriglia) fra cui il notissimo Virgilio Diomiri.
(4) Da varie conversazioni soprattutto con mio cugino Alcibiade Gragnoli, memoria storica della famiglia, ma anche con Manrico Govoni, Giovanni Tinacci, Giuseppe Morandini (presidente di ANPI Valdarno). Ringrazio per alcune indicazioni storiche l’amico prof. Giorgio Sacchetti. Su Renato Melani, detto Gocciolina, c’è una sua nota in Dizionario biografico degli anarchici.
(5) Giorgio Sacchetti, dopo aver letto l’articolino, mi scrive: “Qui ritorna il problema della sequenza, perché in Valdarno furono pochi gli anarchici che entrarono nel nuovo partito socialista nel 1892; e non furono molti i socialisti che aderirono subito al nuovo PCdI nel 1921. In realtà il PCI togliattiano del dopoguerra raccolse e accolse nel suo seno le culture sovversive prefasciste. Le origini del PCI valdarnese non risiedono tanto nella sequenza politica sopra descritta, che è casomai vulgata di autorappresentazione storica, ma piuttosto nel crogiolo sindacalista rivoluzionario e anarco-sindacalista presente e maggioritario fino agli anni venti del ‘900 nel milieu siderurgico minerario”. (Giorgio Sacchettti, corrispondenza privata, 31.01.2018).

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