25 ottobre 2016

Intervista a Giampiero Bigazzi [ Andrea Tinti per MUSICPLUS ]

Cosa significa essere un produttore artistico e un discografico?
Il ruolo del produttore artistico è importante. A meno che l’artista non abbia la capacità di “sdoppiarsi” fra essere l’interprete (e spesso anche l’autore) e il “supervisore” del proprio lavoro.
Il produttore infatti ha un ruolo, diciamo minimo, di coordinamento artistico e musicale dell’opera, ma di solito ne è anche il regista, l’arrangiatore dei brani, l’ispiratore generale del lavoro.
Quindi con un’importante ruolo creativo, a fianco e in condivisione con i musicisti. E’ un ruolo utile, perché un orecchio, una sensibilità, anche un occhio esterni spesso sono necessari a chi crea la musica.
Spesso è anche il collegamento con chi registra e anche con chi realizza poi il disco.
Quindi più che “cosa significa”, direi “come deve essere”. Deve essere complice dei musicisti, condividerne il progetto, e deve sapere di musica...
Il discografico è l’editore. E’ la figura che realizza in modo esecutivo l’opera musicale. La promuove e, se gli riesce sotto questi chiari di luna, cerca di commercializzarla. Secondo noi, e secondo la nostra storia, il discografico non deve essere solo un “ragioniere”, ma anch’esso un artista che ragiona. Fare musica necessita per forza di creatività anche per chi ha il ruolo di confezionarla, stamparla e venderla. E’ chiaro che questa ultima azione è fondamentale...

2) Come sono cambiati questi mestieri negli anni?
Non penso che ci sia una trasformazione radicale di questi ruoli, nonostante che tutta la “filiera” del fare musica sia profondamente cambiata. Si sta assistendo, grazie alla facilità con cui si può accedere ai mezzi di registrazione e di produzione di un opera musicale, ad una maggiore consapevolezza dei giovani musicisti e anche di quelli meno giovani. E molti artisti, rifiutati alle case discografiche in crisi, si autogestiscono e si autoproducono. E fanno bene. Era ora… ma figure “esterne” alla musica, ma ugualmente coinvolte artisticamente, sono importantissime per la buona riuscita del progetto.

Come trovi gli artisti con cui lavori?
Abbiamo un meccanismo strano… niente audizioni e niente dai cd che ci arrivano. Nella nostra lunga storia si narrano clamorose sviste: i primissimi Diaframma, i primissimi Modena City Ramblers, un giovane Riccardo Tesi… Ascoltiamo tutto molto volentieri e rispondiamo a tutti, ma noi siamo un etichetta di musicisti e i dischi (i pochi che adesso ancora pubblichiamo) si scelgono a “incastri progressivi”: facciamo molti nostri progetti (quasi tutti, ormai), con amici musicisti di amici musicisti, collaborazioni in divenire, allargamenti dei progetti in corso…

Cosa ti deve colpire al primo ascolto?
Personalmente sto molto attento all’esecuzione, alla precisione, all’intonazione, agli arrangiamenti, alla struttura dei brani. Forse non è un buon approccio, ma è la prima cosa che ascolto. E' una specie di “vizio” dalla lunga frequentazione della musica contemporanea e classica. Poi ovviamente lo spessore del progetto, complessivamente. L’originalità è un optional…

Quale consiglio puoi dare ad un giovane che inizia a suonare?
Studiare, studiare, studiare. Non accontentarsi. Migliorare sempre. Fare gavetta. Suonare dal vivo. Registrarsi sempre e riascoltarsi, e riflettere. Correggersi sempre. E ascoltare anche gli altri. Più musica possibile. Essere curiosi. Ma poi fare le proprie scelte.

Le nuove tecnologie (mi riferisco alle piattaforme di social network, alla musica in MP3, ecc.) aiutano l’artista? Se sì, come credi che debbano essere utilizzate?
E’ una buona opportunità. Oggi fondamentale. Insieme alla musica dal vivo, e le due cose spesso si intrecciano. I social vanno sfruttati pienamente. Tutti. Ma ovviamente non dovrebbero essere la partenza e l’arrivo del progetto. Perché se uno cammina restando sempre nello stesso punto, alla fine si scava una buca… Far vivere un progetto vuol dire anche confrontarsi con il pubblico vero, di persone reali. Inventarsi e mantenere rapporti diretti, vivi. Una rete più fitta possibile di relazioni. E alla fine è la musica che vince. L’idea, la sua realizzazione. Spesso chi non raggiunge il successo trova un sacco di scuse: colpa della distribuzione, della promozione, del booking… Invece, quasi sempre, è colpa del progetto, se non funziona.

Come vedi il futuro della musica (in generale) e di quella registrata (nello specifico)?
Eh! come lo vedo… non lo so con precisione. Il problema è nelle capacità di “vendita" non di diffusione, e tanto meno di creazione. Queste crescono a dismisura, proprio grazie al digitale che invece è la tomba delle possibilità commerciali della musica registrata. Diciamo che la musica dal vivo, i concerti fatti da persone in carne e ossa e nervi e corde vocali e sudore, non si possono scaricare, si possono registrare o filmare, e mettere in un file. Ma non è la stessa cosa.

Ha senso pubblicare un supporto discografico (anche sottoforma di file) in questo periodo storico?
Oggi viviamo una generalizzata, enorme, diversificazione degli strumenti di diffusione della musica. Non c’è più un supporto solo, come lo è stato per molti decenni. E c’è comunque una prevalenza di valore nella musica dal vivo. Quindi sembrerebbe quasi superfluo “fare un disco”. Ma non è così… penso al teatro e provo a fare un confronto... il disco è come il copione per il teatro. Fare un disco oggi (operazione fra l’altro molto più onerosa che stampare un libro…) vuol dire dare il via a un progetto musicale che poi si sviluppa nelle “recite” (i concerti) dal vivo e cresce nella sua diffusione sui palcoscenici. Il disco è anche una forma di promozione del progetto stesso, un multiplo che spesso vive principalmente nella dimensione digitale on line. Ma resta un’opera d’arte, l’inizio e il cuore pulsante della produzione musicale.

Cosa deve trasmettere una canzone in chi l’ascolta?
Una canzone deve raccontare. Sentimenti, stati d’animo, storie. Deve essere “semplice”, perché è la sua cifra stilistica e deve trasmettere essenzialità. Quando questa capacità di sintesi custodisce la profondità della narrazione e dei colori che si è voluto rappresentare, si cattura l’attenzione e i sentimenti di chi ascolta. In più, per quanto mi riguarda, resto legato molto anche a una cosa che ritengo necessaria, anzi urgente: la melodia.

Un tempo l’esigenza di fare musica sembrava legata a un bisogno interiore dell’artista, oggi mi sembra più legata all’aspetto “figo” del fare musica e all’eventuale successo. Mi sbaglio?
E’ stato sempre così… diciamocelo… già quando ero poco più che adolescente mi era facile trovare fidanzate perché suonavo… il fascino dell’artista… e in questo caso l’artista comunque più "pop”.
Oggi potrei dire che c’è un inizio e uno sviluppo (e quasi mai c’è una fine) nel fare musica, nel motivo per cui una persona si mette a fare musica e provare a trasmetterla al pubblico. L’inizio può essere adesso come lo era anche 40 anni fa perché fa “figo”. Poi c’è chi rimane su questa lunghezza d’onda e chi matura piano piano l’idea che si sta facendo arte. Ci si sta esprimendo con essa. E matura l’idea che questo possa essere un lavoro. Perché il mondo - per non morire - ha bisogno di musica, di arte e di bellezza. Ma, detto questo, non trascurerei l’elemento “divertimento”. Fondamentale come d’altronde il godimento che uno prova nel suonare, comporre, cantare...

Perché, secondo te, il mercato discografico si è così contratto negli anni? La colpa di chi è?
Inizialmente è stato un problema di prezzi… soprattutto in Italia. Quando si è passati al cd e si sono ristampati sul nuovo supporto interi vecchi cataloghi si sono alzati i prezzi. Da parte soprattutto delle major. In effetti all’epoca fare un cd costava molto… ma quando i prezzi di fabbricazione sono diminuiti non è diminuito il prezzo di vendita. Quindi prezzi alti e poi tutto il sistema di commercializzazione che è stato ed è ancora vetusto, con l’iva come oggetto di lusso, sistemi di sconti inadeguati, punti vendita sempre meno accoglienti… La crisi è iniziata lì. Poi è arrivato il web e l’idea di “possedere” un disco è diventata sempre più un desiderio da vecchi (che, invecchiando, si sa, smettono progressivamente di appassionarsi alla musica), perché i più giovani hanno imparato subito ad accedere facilmente a tutto ciò che vogliono, e prevalentemente gratis, attraverso il web. C’è youtube, spotify… tutto sta in un computer o in un telefonino e quindi che bisogno c’è di comprare un disco? E’ ormai un oggetto d’antiquariato… e allora tanto vale ritornare al vecchio caldo vinile!
Detto questo, però, vorrei ribadire quello che dicevo prima. Siamo in una situazione paradossale (ma artisticamente valida). I dischi non si vendono, ma servono sempre: da una parte a promuovere un progetto e la sua diffusione live e dall’altra servono per dare il via. Pensare a un disco resta sempre il miglior strumento per mettere su un idea complessiva di musica e di narrazione musicale e quindi andare su un palcoscenico a raccontarla.

Oggi sembra ancora reggere l’aspetto legato ai concerti. Da musicista/produttore/discografico come è cambiato il live?
I concerti sono fondamentali. Anche se la crisi morde pure questo settore e le occasioni diminuiscono… ma ce ne sono ancora molte e poi uno se le inventa… Il live è cambiato nel senso che tutto è molto più professionale di quanto lo fosse venti o trent’anni anni fa. E questo aiuta la crescita dei giovani talenti. Che devono insistere, anche se è sempre più difficile in questa fase: ma la cosiddetta “gavetta” è importantissima.

Per scrivere una hit esiste una formula magica?
Mai scritto o prodotto una hit, almeno nel senso classico del termine. Forse esisterà una formula magica che io non conosco, a quanto pare. E’ un alchimia particolare. Bisogna saperci fare… Ma penso che la “scintilla”, l’ispirazione fulminante, sia solo il dieci per cento, forse meno, il resto è duro lavoro, artigianato puro, capacità di procedere di cesello...

Perché in Italia non si mai creato un bacino numeroso d’ascoltatori rock come in altri Paesi (Germania, Francia, Inghilterra)?
O Tinti! o che domande difficili mi fai… Boh… non saprei… forse perché siamo ancora il paese del Bel canto? o più materialisticamente non si è fatto nulla, nei decenni, per facilitare la diffusione della musica rock. Dico come facilità di organizzare, progettare, creare reti. Le istituzioni (e ci metto anche la televisione e la Siae) non hanno aiutato. Anzi hanno spesso boicottato. Noi siamo l’unico paese nel mondo, dico nel mondo, ad avere una cosa come il festival di Sanremo… quando lo raccontiamo ai nostri amici giapponesi o messicani o americani (ma anche belgi) non riescono neppure a capire di cosa si tratta...

  
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